Saturday 18 February 2012

Cibo e letteratura: panificare


Molti di noi conoscono e hanno letto, il libro di Simonetta Agnello Hornby Un filo d'olio. E' un libro delizioso.

Come ho detto qui, durante i giorni della nevicata romana ho panificato un po' e mi è tornato in mente questo brano. Ricordo che nel leggere la descrizione della panificazione notavo quante cose lì riportate avevo imparato a fare nel tempo e  ritrovavo conferma delle tecniche e dei gesti. Quante cose imparate negli anni  passati, insieme agli amici di CI e di blog, lette in rete, sui libri. Gesti e tecniche perse in poche generazioni, che tornano ad essere riscoperti e che con l'avvento di internet saranno conservati per i posteri. Quando trovo qualcosa di bello lo voglio condividere, è più forte di me! Allora godiamoci insieme il brano sulla panificazione, la bellezza di questa descrizione che l'autrice ci ha donato.


Il pane, e non la pasta, era il cibo principale dei contadini. Nei periodi di magra perfino il cacio, classico companatico delle fattoriecon ovini, scarseggiava; ma la fame a Mosè non si fece mai, nemmeno negli anni di guerra - anche allora, il nostro frumento e le nostre olivebastarono a sfamare tutti. Ogni settimana si panificava per le cinque famiglie che vivevano nella fattoria, più i garzoni. In estate eravamo di più, perché anche noi mangiavamo esclusivamente il pane di Mosè.Fare il pane era un lavoro di gruppo faticoso, ed era «cosa» di donne. Ciascuna madre panificava per il proprio nucleo familiare - a turno e in giorni diversi -, ma tutte le altre, dalle anziane alle bimbe, erano pronte ad aiutare. La stanza del forno era nella casa di Luigi, il campiere, non soltanto perché Rosalìa potesse sovraintendere ma anche  perché lei panificava più delle altre: oltre che per la propria famiglia, faceva il pane per i garzoni, i braccianti e gli operai avventizi. In più, nell'arco dell'anno e secondo i lavori stagionali, dava da mangiare aipotatori degli olivi e alle squadre dei raccoglitori di mandorle,pistacchi e olive. Oltre che dalle parenti, Rosalìa era aiutata in cambiodi vitto e alloggio da una vedova. Nipote della Carcaredda, una favarese famosa per la bontà del pane che famiava, Marastella era stata ingaggiata per aiutare nelle pulizie di casa e badare agli animali domestici, ma soprattutto per la panificazione; e aveva deluso tutti: il suo pane era giusto giusto, e Rosalìa non potè mai contare davvero su di lei per quel compito fondamentale. Ma Marastella era sola e disgraziata, e dunque se la teneva. Rosalìa ci permetteva di assistere alla famiata a condizione che non disturbassimo. La sera prima andavamo a casa sua per il primo stadio della panificazione. Con fare solenne, prendeva dalla madia una pagnottella di pasta lievitata della settimana precedente, la livatina,che aveva lasciato a seccare. Noi, tutte comprese, la guardavamo togliere con decisione la crosta esterna rivelando all'interno la pasta giallo paglierino e spugnosa, trasformata in lievito; quando ce la faceva annusare, aveva un odore dolce-salato. Poi Rosalìa la lavorava in una piccola majdda - un recipiente di legno rettangolare dai lati alti e svasati - dove aveva sparso un po' di farina e uno spruzzo di sale, per far uscire aria e gas; dopo di che, la lasciava riposare. Nel frattempo,versava nella majdda due chili di farina, formandovi al centro una conca; quindi, vi aggiungeva la livatina sciolta nell'acqua tiepida e impastava. Il lievito così ottenuto, 'u crescenti, avrebbe riposato fino al mattino seguente e poi sarebbe stato aggiunto alla farina per il pane della settimana

Il giorno della famiata Giuliana ci svegliava presto: io, che di solito ero riluttante ad abbandonare il letto, ero la prima a balzare su ed ero subito pronta - occhi cisposi e cuore martellante per l'eccitazione. Allineate contro il muro accanto alla porta della stanza della famiata che dava sul nostro cortile, in modo che potessimo sgusciare via per sgranchirci le gambe, o se ci fossimo annoiate, guardavamo senza fare domande: le donne dovevano concentrarsi, il processo della panificazione durava tutta la mattinata ed esigeva attenzione continua.  «Se le distraete e il pane viene male, noi e gli altri dovremo mangiarlo così com'è per una settimana intera!» ci ammoniva Giuliana. Ma era così interessante che mi era facile rimanere ferma, occhi, orecchie e naso aperti. Chiara, anche lei tutta occhi, stringeva forte la mano di Giuliana. Le donne iniziavano a lavorare di prima mattina.Ciascuna aveva un compito. Collaborava un solo uomo, in genere un garzone: trasportava sacchi di farina, fascine di legna, aiutava alla sbriga e portava i cesti colmi di pane fresco nella cucina di Rosalìa e a casa nostra, dove il pane veniva conservato nella madia e, quando era tanto, nelle cassapanche. Le bambine, e a volte anche i maschietti, avevano una quantità di incarichi diversi e importanti: spezzavano i ramoscelli di olivo secchi e li smistavano in due cesti - uno di rami sottili e lunghi con le foglie, che bruciavano velocemente, un altro di rametti corti per avviare il fuoco - accanto alla catasta di rami nodosi per il fuoco sostenuto della cottura; su richiesta, portavano veloci altra acqua e farina alle donne che impastavano; spazzavano con le foglie di giummara la farina caduta a terra, dove le formiche erano in agguato; mandavano via cani, gatti e galline che entravano dal baglio e davano la caccia ad api, vespe e mosconi che ronzavano attorno alle donne, pronti a pungere le carni bianche delle loro braccia, nude fin sopra il gomito. Le donne tacevano; il lavoro era intenso, la tensione palpabile. C'erano momenti di levità, quando cantavano per scandire i tempi deilavori ritmici di squadra e quando scambiavano brevi battute e ridevano modellando i singoli pani. Marastella, scurissima in volto, ci incuteva soggezione: era l'unica che lavorasse senza nemmeno un accenno di sorriso. Setacciava assorta la farina, che prendeva da due sacchi diversi e miscelava con cura, e allo stesso tempo sorvegliava da lontano il calore del forno, che sapeva misurare dal crepitìo dei ramidi olivo. In questo era davvero la più brava. Anche Rosalìa, che aiutava un po' tutte e non stava ferma un istante, sorvegliava il forno. Puntata dalle pupille attente delle due, la donna che si occupava della famiata per la prima infornata le guardava ansiosa e si annappiava: ora dava una arriminata alla brace con la pala, ora la spostava dai mattoni roventi su quelli meno caldi, ora spruzzava acqua sul fondo del forno per controllare il grado di calore raggiunto dalle pietre e decidere che tipo di legna aggiungere al fuoco. Nel frattempo, altre donne impastavano a forza di pugni nella grande majdda poggiata su saldi trispiti. L'odore di farina, lievito, acqua e sale era dolce, pastoso, inebriante. Quando l'impasto era ben amalgamato, lo sollevavano tutte insieme, al grido di «jisa, jisa!» - era pesantissimo - e lo rovesciavano su un ripiano di legno quadrato e molto spesso, poggiato su trispiti bassi, lo scanatore. A quel punto, le donne si dividevano in due squadre. Una riprendeva a impastare nella majdda per una seconda infornata.Marastella misurava la farina e la porzione di crescenti; le bambine si tenevano in disparte, ma bastava un cenno perché portassero acqua o altra farina. La seconda squadra si occupava invece della scanata,  fondamentale per la consistenza del pane: togliendo l'aria lo rendeva spesso e dunque faceva sì che si conservasse buono a lungo. Le donnescanavano l'impasto premendovi sopra la sbriga, una robusta stanga di legno assicurata a un perno, che sollevavano cantando e poi calavano a forza di braccia: fin quando non ce la facevano più e chiamavano il garzone perché vi salisse sopra, a cavallo o di lato. La stanga, così appesantita, scendeva lenta lenta sullo scanatore lasciando uscire l'aria dall'impasto schiacciato. La scanatura prendeva tempo ed era un vero e proprio esercizio di forza. Dopo la prima scanatura le donne sollevavano la sbriga e spostavano l'impasto avvolgendo lentamente la pasta su se stessa - la vuncitura -, in vista della seconda scanatura. Quattro volte si scanava e quattro volte si vunciva, e a ogni vuncitura Rosalìa, velocissima, spruzzava sul legno la giusta quantità di acqua esale, sia quando le altre lo sollevavano, sia durante la vuncitura stessa, prima che la pasta arrotolata si allargasse sullo scanatore.

4. Chiara e Silvano, 1952.
Poi si passava all'impanata, la panificazione vera e propria. Con una lama tagliente, Rosalìa divideva la pasta del pane in grosse porzioni e le distribuiva alle donne addette a modellare i pani: un compito piacevole e poco gravoso, che poteva essere affidato anche alle vecchiee alle ragazzine. Queste si presentavano volenterose, pronte adaffaccendarsi sulle tavole montate su trispiti. Ciascuna, susuggerimento di Rosalìa, e fino a quando non riceveva il contrordine, modellava un solo tipo di pane - filoni lunghi quanto un avambraccio, pagnotte grandi quanto un pugno e il classico chìrchiro di Mosè, il pane a ferro di cavallo. Posati su tavole coperte da lenzuola che sapevano di fieno, i pani erano lasciati a riposare sotto coperte di cotonaccio grigio per l'ultima, breve, lievitata. L'attenzione delle più brave si spostava a quel punto verso il forno; entravano in azione quando aveva raggiunto il calore uniforme per la cottura: allora spalavano veloci le braci e spazzavano il fondo di mattoni infuocati -doveva essere pulitissimo, perché lì avrebbero poggiato i pani, che poi infornavano altrettanto velocemente e stando attente a non lasciar fuoriuscire il calore. La brace riempiva la stanza di odore di bruciato,e a me veniva l'acquolina in bocca. Intanto, le altre continuavano a modellare i pani; a lavoro finito,avevano appena il tempo di bere un sorso d'acqua fresca prima di togliere la prima infornata e mettere dentro la seconda. A volte, per mantenere meglio il calore Rosalìa murava lo sportello del forno con acqua e creta: per rimuoverla bastava, al momento opportuno, aprire lo sportello con decisione. La nisciuta dal forno del primo pane era un momento sacrale. Con il dorso della mano Rosalìa si asciugava il sudore dalla fronte, poi, a gambe larghe, la schiena leggermente inarcata all'indietro, dava l'ordine e controllava le donne che con la pala tiravano fuori i pani dal forno, a uno a uno, per poi posarli sulle coperte distese sulle tavole lungo il muro. In silenzio. Rosalìa li «provava» premendoli con i pollici per controllarne la cottura; il profumo del pane caldo sbummicava alla minima pressione. La sua approvazione era accompagnata dai sospiri di sollievo delle altre; la tensione si allentava e tra loro si alzava pian piano un lieve chiacchiericcio. Ma Rosalìa non vi partecipava, lei sceglieva il pane: quello dalla crosta più dorata e croccante era per noi, poi ne prendeva uno per i suoi figli; il resto andava nella madia, per gli altri. Non ce ne offriva nemmeno un pezzetto dal panino più piccolo sino alla fine della famiata, quando tutto il pane era stato cotto. Solo allora tirava fuori da sotto un tavolo la piccola majdda in cui aveva riposto la pasta per la livatina della settimana seguente.A seconda del calore residuo nel forno, Rosalìa modellava panini che cuoceva direttamente nel forno, senza teglia, e che condiva con olive nere, sarde salate, pezzetti di frittole di maiale appena appena sciolte e pecorino, o scacciate rustiche su cui passava le mani unte d'olio; nei buchi formati con una leggera pressione dei pollici metteva un ciuffetto di rosmarino, un pezzetto di cacio o una punta di sarda salata,oppure semplicemente spolverava la pasta con sale e origano. I bambini della fattoria, da tempo riunitisi sull'uscio del baglio, si facevano avanti appena lei iniziava a sfornarli. Ma la mia passione era il pane e olio. Rosalìa prendeva i pani meno belli, ancora fumanti, e li spezzava; distribuiva quei pezzi di pane caldo porgendoci con l'altra mano la ciotola di olio e sale in cui intingere un boccone di pane alla volta. Pane caldo e olio - in assoluto il cibo più buono che abbia mai gustato.

ndb (nota della blogger ;) )
majdda: madia siciliana




2 comments:

  1. E' uno dei libri più belli che abbia letto, mi è piaciuto tantissimo, buon sabato! Ely

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  2. che dire ,complimenti per il tuo blog,il libro è sicuramente da leggere,mi incuriosisce molto...da oggi ti seguo è stato un piacere passare da qui...ciao e...buona domenica!!!

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